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Brexit a che punto siamo

I negoziati ancora in corso con lo spettro del “no deal”: che cosa significa e come siamo arrivati fin qui.
L’Europa si prepara al «no deal» e si parla di «negoziati a oltranza» sulla Brexit, mentre il Regno Unito si dice «deluso» dalle conclusioni del vertice europeo. Abbiamo provato a sbrogliare la matassa di questa complessa questione.

Che cosa sta succedendo in questi giorni

A Bruxelles nelle scorse settimane gli Stati membri hanno chiesto alla Commissione di prepararsi a uno scenario di uscita del Regno Unito dall’Unione europea (Brexit = Britain exit) senza un accordo sulle relazioni future. I leader dei 27 hanno espresso supporto totale al capo negoziatore – il politico francese Michel Barnier, più volte commissario europeo – e al suo approccio negoziale: l’Ue è pronta a negoziare e ha una chiara preferenza per un accordo ma resta ferma sui punti di negoziato che riguardano la parità di condizioni, il mercato unico, la pesca e la governance, assicurando che tra i leader prevalgono la solidarietà e l’unità.

Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha riassunto così i termini del negoziato: «Siamo uniti e determinati ad arrivare ad accordo ma non a qualunque costo. La parità di condizioni è essenziale perché garantisce, ad esempio, parità di standard di produzione industriale con il Regno Unito. Senza parità di standard non c’è accesso nel mercato Ue senza dazi o quote, perché questo metterebbe in pericolo i nostri posti di lavoro», ha spiegato.

Facciamo un passo indietro. Come siamo arrivati alla Brexit?

Iniziamo dalla geografia: la Gran Bretagna, che comprende Inghilterra, Galles e Scozia, e l’Irlanda sono isole che si sono staccate circa ottomila anni fa dal Continente dell’Europa. Quindi già geologicamente parlando il Regno Unito è separato. Per motivi storici Londra è sempre stata piuttosto euroscettica, specialmente quando a guidarla erano i conservatori «Tory» (senza risalire fino a Churchill, basta ricordare i discorsi degli anni Ottanta di Margaret Thatcher e poi dieci anni fa con il ritorno di un governo conservatore). Il crollo finanziario, la preoccupazione dell’opinione pubblica sull’immigrazione e la minaccia politica dalla destra anti-europeista di Nigel Farage ha portato nel 2015 il conservatore* David Cameron a promettere – se avesse vinto le elezioni – un referendum sulla Brexit, che poi si è tenuto il 23 giugno 2016. Ha avuto la meglio la campagna populista che, con lo slogan «Riprendi il controllo», ha convinto gli elettori (52% contro 48%) a favore dell’uscita del Regno Unito dalla Ue. Sono seguiti tre anni di negoziati tra Londra e Bruxelles con diverse fasi di stallo, in cui il parlamento britannico si è impantanato nell’indecisione sul da farsi. Lo scoglio maggiore riguardava il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord: l’allora premier britannica Theresa May non è riuscita a mediare su come portare l’Irlanda del Nord fuori dall’Europa senza ripristinare gli sgradevoli controlli di frontiera. La situazione si è sbloccata con il nuovo premier Boris Johnson, che ha subito cercato l’accordo con la sua controparte irlandese Leo Varadkar, spostando di fatto i controlli alle frontiere rispettando così gli accordi del Venerdì Santo che nel 1998 avevano posto fine ai conflitti tra le due Irlande. Sebbene si tratti di un accordo che non è popolare in Irlanda del Nord, ha il sostegno del partito conservatore che ha la maggioranza. Approvato dal Parlamento britannico nel dicembre 2019, è stato ratificato dal Parlamento europeo lo scorso gennaio e dalla mezzanotte del 31 gennaio 2020, dopo 47 anni di adesione alla Ue, il Regno Unito non ne fa più parte.

Se il Regno Unito è fuori dall’Unione europea perché si parla ancora di negoziati per la Brexit?

Il Regno Unito ha divorziato dall’Europa e non è più membro della Ue dal gennaio 2020, ma si sono dati un periodo di transizione di 11 mesi per avere il tempo di negoziare una nuova relazione: cioè per restare nel mercato unico europeo e mantenere un’unione doganale. I cittadini britannici non sono più cittadini europei, ma possono continuare a vivere, lavorare, studiare e andare in pensione nell’Unione europea, e viceversa i cittadini dei 27 Paesi membri Ue nel Regno Unito, perché per il periodo di transizione fino al 31 dicembre 2020 resta il mercato unico, e fino ad allora si applica la libertà di circolazione di merci, persone, servizi e capitali oltre i confini. Il primo gennaio 2021 sarà il primo giorno del Regno Unito al di fuori delle regole Ue. In base all’accordo di recesso della Brexit, quel giorno avrebbe potuto essere posticipato fino al 2022 o al 2023, ma Johnson ha escluso qualsiasi estensione del periodo di transizione.

Quindi dal 31 gennaio 2020 cosa è cambiato?

Il cambiamento principale finora è stato legale e istituzionale. Il Regno Unito continua a seguire le regole dell’Unione europea, ma non ha voce in capitolo nel farle. I ministri britannici non svolgono più alcun ruolo nel processo legislativo europeo, il premier Johnson non partecipa ai vertici europei per definire le priorità della Ue. I 73 deputati del Regno Unito sono stati rimandati a casa dopo 47 anni in cui i governi britannici hanno incoraggiato politiche economiche liberali come quella ha fatto nascere il mercato unico, pur rifiutando l’adozione dell’euro e l’area Schengen per l’abolizione dei controlli dei passaporti alle frontiere.

Quali sono le grandi questioni in gioco? La transizione dalla fase 1 alla fase 2

La fase 1 riguardava il divorzio dalla Ue e si è conclusa lo scorso 31 gennaio 2020 a mezzanotte. Dal primo febbraio scorso a fino al 31 dicembre 2020 è in corso la fase 2, sono rimasti in sospeso ancora molti punti. Come restano legati Uk e Ue? Con quali regole comuni? Il rischio, se non si raggiunge un’intesa commerciale, è di rimanere con una Brexit senza accordo («no deal») alla fine di quest’anno. Con conseguenze che riguardano l’industria automobilistica, l’agricoltura, la pesca, ma anche gli ospedali, oltre a tutte le imprese europee che rischiano di dover lasciare il Regno Unito e viceversa.

Fondamentalmente le questioni sono tre.

La prima, quali regole comuni riguardo gli aiuti di Stato alle imprese. In cima alla lista c’è la necessità di un accordo commerciale per garantire il flusso di merci senza dazi tra Unione europea e Regno Unito. Bruxelles chiede parità di condizioni. Il rischio è la concorrenza sleale: la Ue ha fatto sapere di acconsentire a zero tariffe e zero quote solo se il Regno Unito si impegna a zero «dumping», cioè a non abbassare gli standard sociali e ambientali per offrire prezzi più competitivi di quelli Ue.

La seconda grande questione riguarda chi decide come si risolvono le controversie. La Corte di Giustizia è il punto di riferimento per la Ue, non più per il Regno Unito.

La terza grande questione è la pesca, politicamente molto importante perché tocca in particolare l’annosa difficile relazione tra i pescatori francesi e quelli britannici e irlandesi: l’Europa vuole continuare ad avere accesso alle acque della Manica per mantenere le quote della pesca.

Infine, vanno regolati da capo gli accordi sull’accesso ai database e per i mandati di arresto, nella lotta comune alla criminalità.

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