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Incentivi fiscali alla natalità: troppo costosi e con esiti incerti

Secondo uno studio del Fondo Monetario, all’inizio del millennio, Singapore mise in atto misure drastiche per incentivare la natalità: congedi parentali pagati, sussidi per la cura dei figli, bonus fiscali una tantum, riduzioni strutturali di imposta, incentivi per le imprese che consentivano orari di lavoro flessibili. Queste politiche non ebbero successo o comunque non furono sufficienti a invertire la caduta della fertilità che anzi accelerò, da 1,41 figli per donna nel 2001 a 1,16 nel 2018.
Misure analoghe, più o meno costose, sono state messe in atto da molti altri Stati, perché l’inverno demografico è una preoccupazione di moltissimi Paesi, soprattutto in Asia e in Europa. La considerazione che si può fare è che, a meno di spendere cifre colossali, gli incentivi fiscali hanno scarsi effetti sulla natalità. Salvo forse per famiglie in condizioni di povertà assoluta, la decisione di fare un figlio non può essere influenzata dalla prospettiva di incassare un bonus fiscale per qualche anno. A cosa servono dunque le politiche per la famiglia, come l’assegno unico o i congedi parentali? La risposta che dobbiamo darci è che servono per consentire alle famiglie di fare scelte libere riguardo al lavoro (specie delle donne) e ai figli. E che per perseguire questi obiettivi (importanti, ma molto più modesti di quello di contrastare l’inverno demografico) più degli incentivi monetari servono politiche per conciliare vita lavorativa e vita famigliare: lavoro stabile e no precario, orari di lavoro flessibili, asili nido (come previsto dal PNRR), mense scolastiche, scuola a tempo pieno, centri estivi, servizi di cura per gli anziani.
L’idea che è circolata di dare 10.000 euro per ogni figlio costerebbe circa 4 miliardi il primo anno, 8 il secondo, 12 il terzo e così via a salire. Si tratta ovviamente di cifre di fantasia. Inoltre, si tratterebbe di un investimento a lunghissimo termine (20-40 anni) dall’esito estremamente incerto. Non conviene, tanto più che l’inverno demografico si sta manifestando già ora con tutti i suoi prevedibili effetti sulla società e sull’economia: negli ultimi 4 anni, l’Italia ha perso quasi 900 mila persone in età di lavoro (20-56 anni). Secondo l’Istat, ben che vada, ne perderemo altri 2 milioni nel 2030 e 8 milioni nel 2050. Non stupisce che le imprese non trovino lavoratori. Né stupisce che lo scenario di riferimento del Def preveda che il rapporto debito/Pil, dopo una temporanea discesa fino al 140 per cento, già nel 2027 ricominci a salire fino al 160 per cento nel 2040 e al 180 per cento nel 2050.

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